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Alla fine del Cinquecento, il Tribunale del Sant’Uffizio ottenne una sede più ampia, Palazzo Chiaramonte e avvia una serie di interventi di ampliamento e di trasformazione che, a partire dalle edificazione delle nuove carceri e della porta di accesso da piazza Marina, configurerà una vera e propria cittadella.
L’edificio, costruito su due piani, fu realizzato in modo semplice e severo quasi a sottolineare il carattere cupo a cui tali ambienti erano destinati.
Durante i restauri compiuti nei primi anni del Novecento, lo storico Giuseppe Pitrè riuscì a salvare dalla completa distruzione i graffiti lasciati dai prigionieri dell’Inquisizione in alcune celle delle carceri. Li portò alla luce di persona, lavorando di scalpello. Lo studioso palermitano decifrò, sotto diversi strati di intonaco, figure, disegni, iscrizione e versi. Un delicato lavoro di riscoperta ha portato alla luce, da quelle celle buie, fredde ed umide, dipinti e segni carichi di sofferenza con scritte in italiano, in dialetto, in latino e perfino in inglese, restituendo voce e nome a chi da troppo tempo era stato dimenticato.
Il progetto di restauro, avviato nel 2002 e interamente redatto da tecnici dell’Ateneo, ha restituito agli ambienti la loro spazialità originaria, liberandoli dalle numerose aggiunte e superfetazioni che nel corso dei secoli ne avevano stravolto l’identità.
Una campagna di scavi archeologici fra le fondamenta dell’edificio seicentesco, condotta tra il 2003 e il 2008, ha permesso di portare alla luce i resti di una grande sala semi ipogea con copertura a volta con costoloni, si presume dello stesso periodo di costruzione del Palazzo Chiaramonte visitabile attraverso l’antica scala in gran parte recuperata.
I resti di uno stabilimento per la produzione di manufatti in terracotta e vetro di epoca normanna, sono stati scoperti durante la stessa campagna. Caratteristica la presenza di cinque fornaci di forma circolare e di una vasca di raffreddamento quadrata.
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